Mario Lapenna ricorda il compagno di scuola Tonino Buccione

L'omaggio ven 20 luglio 2018
Attualità di La Redazione
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Tonino Buccione è il primo da destra ©Termolionline.it
Tonino Buccione è il primo da destra ©Termolionline.it

TERMOLI. In occasione della messa in suffragio per Antonio Buccione l'indimenticato campione di vita e di sport dopo sette giorni dalla sua morte uno dei suoi tanti amici il maestro Mario La Penna ha scritto questo suo pensiero alla nostra redazione per ricordare l'amico Toni Buccione.

«Ho davanti a me la fotografia della classe della seconda elementare. L’ho cercata a lungo tra le mille cose che il tempo relega in luoghi non più praticati e quasi inaccessibili, dopo aver appreso della scomparsa di un altro compagno di scuola - l’ennesimo – che la megera dalla grande falce ha strappato al nostro affetto. Tony Buccione ci ha lasciato. Un male sciagurato lo aveva colpito a tradimento molti anni addietro, deformando con ironia crudele proprio gli elementi salienti che avevano caratterizzato la sua vita d’atleta. E così, chiudendo la sua giornata, ha raggiunto molti di coloro che ancora guardano verso di me da questo ingiallito cartoncino che ho tra le mani. La foto fu scattata nel 1947 dal grande Gianni, un soldato veneziano allo sbando dopo l’8 settembre, il quale aveva deciso avventurosamente di farsi un futuro a Termoli improvvisandosi fotografo con successo. Il nostro maestro Raffaele Gentile, collocato giusto al centro del gruppo, è seduto in posa austera e pare scrutare un punto indeterminato con lo sguardo sbieco; noialtri alunni gli facciamo corona. Tony è il secondo in basso a destra, circondato affettuosamente dalle braccia dell’inseparabile amico, il simpatico Giovanni Carnevale. Erano molto legati a quel tempo. Giovanni era il nipote del vecchietto che tutti noi bambini chiamavamo curiosamente ‘Bazar’. Costui s’era guadagnato quel nomignolo grazie all’emporio che gestiva sin agli anni venti e che era situato, se la memoria non mi inganna, all’angolo del Corso Nazionale con via Alfano. L’esercizio commerciale era per l’appunto denominato ‘Bazar’, e per una contorta ragione che non è difficile comunque rintracciare, quel termine si era esteso anche al proprietario del quale nessuno di noi conosceva le vere generalità. E a ben guardare, il negozio, un antro buio che sapeva di stantio, e la scialba esistenza che il suo proprietario vi conduceva, costituivano un insieme inscindibile, perfettamente integrato: l’uno coincideva con l’altro in una giustapposizione che aveva del prodigioso.

L’idea che potesse essere un altro a gestire quell’emporio sarebbe apparsa inverosimile, e forse non solamente a noi bambini.‘Bazar’ era un personaggio a tutto tondo (al pari di altri che a quel tempo popolavano la nostra cittadina) del quale, se disponessi della penna di Turgenev o del sublime Maupassant, potrei abbozzare ben più di questo striminzito schizzo. Il Nostro era rude, scontroso e però sempre elegantissimo (indossava spesso calzoni alla zuava e giacche di tweed scozzese dal taglio originale) e si distingueva per avere ancora tutti i capelli, ch’erano d’un bianco immacolato, deliziosamente ondulati e sempre perfettamente pettinati e appena appena cosparsi d’un’ombra di brillantina. Il suo viso era guarnito inoltre di due magnifici mustacchi risorgimentali. Ad incontrarlo nell’ ottocento sulle rive del Tamigi, lo si sarebbe detto un vecchio dandy londinese. Lo ricordo in quella che era la sua postura preferita: ritto impalato sulla soglia del negozio, nella destra un bastone di bambù e un mezzo sigaro tra i denti. Il vecchietto possedeva una sua speciale leggiadria che incantava i forestieri che si fermavano a rimirarlo quasi fosse una cartolina, ma guai a coloro che avessero preteso di attaccar bottone: ne sarebbero usciti scornati e con le ossa rotte, ché lui non aveva certo tempo da perdere in quisquilie e ciarle. In effetti si può affermare, senza far danno alla verità, che egli praticava una misantropia, ancorché mite e inconsapevole, la quale faceva di lui una persona burbera e talora intrattabile. Vantava, a sentire Giovanni, molti pregi, che qui non conta elencare, ma per certo rivelava un grave difetto: amava svisceratamente suo nipote, il quale ne ricambiava l’affetto razziando senza vergogna il negozio. Giovanni non perseguiva alcun successo scolastico, tutt’altro, sembrava rassegnato alla mediocrità. Egli amava il calcio, ma sfortunatamente difettava di talento, al pari della stragrande maggioranza di tutti noialtri che rincorrevamo senza sosta sui basolati, spesso azzuffandoci, un gomitolo di pezze compresse in una calza da donna.

Un ignobile surrogato del pallone, che pur ci tornava a punto in quei tempi crudeli del dopoguerra. Talora accadeva che qualcuno meno sfortunato avesse in regalo una di quelle piccole palle poco più grandi d’un yo-yo, e allora nei quartieri era festa grande. Giovanni invece pareva vivere in un suo personale Eldorado, non aveva di questi problemi, egli disponeva a suo piacimento di veri e propri palloni, sia pur di semplice gomma, che prelevava dal negozio di ‘Bazar’ secondo il suo criterio. E che palloni! Quelli sì che potevano essere palleggiati facilmente con i piedi e pur anco – esercizio di rara abilità - con la testa. Entrò, seguendo la condotta che il desiderio gli suggeriva, in stretti rapporti con il compagno di classe che più d’ogni altro, persino dell’estroso Elio, avrebbe potuto gratificarlo con il suo esempio. Sto parlando di Tony, com’è ovvio, col quale venne a stabilirsi nel tempo una sorta di simbiosi.

Tony di talento ne aveva da vendere e sembrava essere venuto al mondo per praticare il gioco del calcio e l’atletica. Abilissimo nel palleggio con entrambi i piedi, disponeva già allora di un colpo di testa (un’incornata si direbbe oggi) che faceva faville. Era nato, secondo di tre figli, in una località nei pressi di Pordenone da padre molisano, laboriosissimo sarto, e da madre friulana, donna dalle fattezze singolari, apparentemente algide e purtuttavia dolcissime. Era un bambino timido quant’altri mai, d’una timidezza che celava però un precoce innato carisma fatto di simpatia e disposizione all’ascolto. Anche più tardi, alle medie, nella sezione ‘A’, affidata alla guida della valorosa professoressa Giovina Bernabeo, Tony avrebbe conservato il suo carattere riservato, dietro il quale tuttavia veniva affermandosi un temperamento tenace e volitivo che l’avrebbe portato in breve a riscuotere meritati successi nella corsa e soprattutto nel calcio.

Rammento che quando si andava in massa al campetto del ‘Saponificio’, noi della sezione ‘A’ eravamo guardati con invidia, non solo perché potevamo disporre di Mario, di Pierino, di Filiberto e di Palmerino, a loro modo abili e convincenti, ma perché tra le nostre file era schierato Tony, bravo nell’interdizione, ottimo colpitore di testa e in possesso di un tiro quanto poderoso tanto preciso. Era un vanto di tutta la classe, ma la sua modestia gli ha sempre impedito atteggiamenti dettati da vanità, o peggio da boria. Ha conservato fino alla fine il suo tratto gentile, anche nella sua breve contrastata esperienza politica che lo ha visto sempre disponibile a soccorrere i concittadini bisognosi.

Alla vigilia dell’Epifania del 1964, si disputò allo ‘Stadio della Vittoria’ di Bari l’attesissimo incontro di calcio tra la squadra locale e il Milan. A quel tempo lavoravo nel Collegio EnaoIi, posto ai margini della splendida pineta di Castellaneta Marina, in una località denominata ‘Borgo Perrone’. Avevo appreso del trasferimento di Tony dalla Reggina al Bari, avvenuto all’inizio del precedente campionato di serie B. La squadra pugliese era riuscita a rientrare nella serie maggiore e io, benché tifosissimo del Milan, ero partito in auto assieme a tre colleghi per sostenere idealmente Tony nella difficile impresa di contenere Altafini.

La partita si decise nei primi minuti con due reti, se non ricordo male, messe a segno entrambe da Dino Sani, consentendo al Milan di fare pieno bottino. Tony si portò da par suo, con tenacia e accortezza, ma le due compagini messe in campo avevano un differenziale tasso tecnico di notevole disparità e il Bari dovette soccombere. Alla fine dell’incontro ci recammo all’uscita degli spogliatoi per un breve saluto, ma la sorte volle che Tony fosse già andato via.

Alcuni anni dopo, esattamente nel 1968, assieme a mia moglie Vittoria, ci portammo a Matera da Ginosa, dove avevamo fissato la nostra residenza, con l’intento di incontrare Tony che si era trasferito in quella città dall’anno precedente. Lo trovammo facilmente e dopo esserci abbracciati e complimentati reciprocamente, pretese che restassimo a cena con lui. Fu facile andare sull’onda dei ricordi. Lasciammo andare a briglia sciolta la memoria, rammentando le stravaganze, le avventure, gli eventi di ben otto anni di scuola.

Caro Tony, mi sei sempre stato caro, persino quando stavi dalla parte di Berlusconi, che per un ostinato comunista come me era il peggiore dei peccati.Sei stato un uomo di qualità, e l’esserti stato compagno di scuola ed amico, rimarrà permanente motivo di orgoglio. Sorridici ancora dalle nuvole - a noialtri che ancora per poco ti sopravviviamo - con il tuo sorriso aperto e sincero. Riposa in pace. Sit tibi terra levis. Mario».

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