Città e provincia in un romanzo (quasi inedito) di Francesco Jovine

Terza Pagina gio 08 marzo 2018
Cultura e Società di Claudio De Luca
3min
Un ritratto di Francesco Jovine ©TermoliOnLine
Un ritratto di Francesco Jovine ©TermoliOnLine

GUARDIALFIERA. “Ragazza sola” fu un romanzo rimasto ignoto al Russo, al Pancrazi, al Sapegno, a Salinari, a Giardini ed a Grillandi. Solo più tardi fu “scoperto” da Eugenio Ragni che ne diede conto in una monografia dedicata allo scrittore molisano Francesco Jovine (“La Nuova Italia”, 1972). L’opera aveva avuto vita “clandestina” perché pubblicata ne “I diritti della scuola”, dal 1936 al ‘37, in 35 puntate.

La storia non è tra le migliori partorite dal Guardiese; però, dalla lettura, è possibile istituire confronti con “Un uomo provvisorio” e rilevare l’autenticità con cui egli investe i modi della vicenda, radicando una tematica che poi diventerà quella sua più verace. Se nel romanzo di Sabò c’era una dispersione di tali elementi che celava ancora al lettore quello che sarebbe diventato il suo assunto principale (il contrasto fra la città e la provincia), in quest’ultimo emergevano componenti (motivi polemici, coralità paesane, retorica rappresentazione del mondo contadino) che permetteranno di comprendere meglio tanti passaggi futuri. Ambientata a Roma, con una prima parte che si svolge tra le pareti di Casa Gentilini (i cui componenti, come ne “Gli indifferenti” di Moravia, vivono ciascuno per conto proprio), si snoda la vicenda di Donna Marzia che ignora, volutamente, la crisi in cui versa la sua Famiglia.

Si dà anima e corpo al giornalismo mentre il marito, avvocato, sperpera quanto resta del patrimonio per finanziare un film di cui è protagonista la sua amante.

Le due figlie, Paola e Carla, appaiono spiritualmente lontane dai genitori. In questo ambiente, che ha perduto ogni ideale ed è ormai corrotto sin nelle sue più intime fibre (pur se esternamente indorato da una patina di normalità borghese), finisce Livia Dolegani che ha conseguito da poco il suo diploma di maestra elementare.

Questo mondo, pure tanto diverso dal suo, l’attira; ma non è fatto per lei, povera provinciale insicura e sola, incompresa e desiderosa di evasione. Quando Fiannotta, Segretario dell’avvocato, le esterna i propri sentimenti, Livia ne è felice. Ma, se c’è qualcosa che li accomuna, c’è altro che li rende complementari. L’uomo vede nella giovane tutte quelle virtù che desidera ma che non possiede. Stanco di se stesso, scettico come Sabò, pensa che, sposando Livia, la sua vita possa cambiare e crede di potere riuscire – sorretto dall’amore della maestrina – a liberarsi dall’indifferenza che lo attanaglia e che gli fa accettare un modo di vivere di cui comprende l’inanità. Il fidanzamento sarebbe andato in porto se non si fosse lasciato sorprendere tra le braccia di Paola, figlia minore di donna Marzia.

Delusa Livia abbandona Casa Gentilini tra le cui pareti, dopo la sua fuoriuscita, tutto andrà in rovina. L’avvocato finisce in galera per un ‘crack’ finanziario; sua moglie muore e le due figlie perseverano nella loro rovinosa strada. Livia va ad insegnare, per un anno, in una frazione di campagna del Frusinate; ed è qui che ritrova se stessa tra “gli odori penetranti della campagna che ora le ridavano un ritmo più giovine e fresco al sangue ed al cervello”.

Aderisce sempre più coscientemente alla realtà che la circonda (“In un anno le era accaduto di comprendere delle cose estremamente semplici di cui non sospettava l’esistenza”). Il genere di vita semplice che conduce (“Stando nel letto alto scricchiolante per le pannocchie del saccone, Livia offriva il viso al vento) manco le fa dar peso alle maldicenze che fioriscono su di lei tra quelle case sperdute. Fiannotta continua nella sua profferta amorosa, ma Livia sa cosa rispondergli. Gli dice che è solo un uomo provvisorio, che i suoi sentimenti sono sinceri solo quando li esterna e che è tale per la rassegnata ignavia con cui accetta la vita. Il finale è melodrammatico (Fiannotta, senza che Livia lo sapesse, si trovava in clinica per una grave malattia), ma poi si stempera.

La morale del romanzo è da ricercare nel contrasto tra città e provincia: la prima rende l’uomo diverso da ciò che è, ne distorce i sentimenti e spinge l’individuo verso falsi valori; invece la provincia rimanda ciascuno alla propria intrinseca moralità. Il lavoro si segnala per i dialoghi e per la speditezza della vicenda. Lo stile rimane contraddistinto da accentuati toscanismi e venetismi che difficilmente troveremo nei romanzi a venire di Jovine. Notevoli le pagine di coralità paesana.

Claudio de Luca

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