Sacchetti biodegradabili: perché si pagano?

La polemica lun 08 gennaio 2018
Lavoro ed Economia di Elisa Sarchione
1min
Sacchetti bio ©corrieredisciacca.it
Sacchetti bio ©corrieredisciacca.it

TERMOLI. Il tema caldo che in questi giorni sta accendendo le polemiche sui social (e non solo), riguarda i due centesimi che, dal primo gennaio scorso, i consumatori della grande distribuzione sono costretti a pagare per i sacchetti biodegradabili utilizzati per pesare frutta e verdura. Su Facebook fioccano commenti indignati e foto di mele, arance e frutti vari etichettati uno ad uno come segno protesta. Ma qual è la ragione di questo provvedimento? Proviamo a fare un po’ di chiarezza.

Quasi tre anni fa, l’Unione europea ha approvato la direttiva 2015/720, che nasce con l’obbiettivo di eliminare le buste di plastica (in particolar modo la normativa parla delle buste in materiale leggero, cioè quelle con uno spessore inferiore a 50 micron, le più diffuse), e sostituirle progressivamente con quelle in materiale biodegradabile e compostabile. Ciò, ovviamente, nell’ottica della salvaguardia dell’ambiente. Tale normativa, inoltre, obbliga gli stati membri ad adottare misure per limitare progressivamente l’utilizzo della plastica degli imballaggi, senza fornire, però, disposizioni più precise in merito.

L’Italia, con la legge di conversione 3 agosto 2017, n. 123, recepisce con un atto formale la normativa europea, imponendo contestualmente che questi sacchetti siano pagati dal consumatore, e che il prezzo di vendita risulti dallo scontrino o fattura d’acquisto (comma 5 dell’art.9), ciò presumibilmente per indurre il cittadino ad un utilizzo più responsabile dei sacchetti stessi. Come sovente accade, l’opinione pubblica è divisa al riguardo: molti considerano questa norma iniqua, l’ennesima vessazione del governo su cittadini già provati da una crisi economica che si è protratta per anni; altri, seguendo una logica “benaltrista” piuttosto diffusa, sottolineano come in Italia ci siano cose più gravi di cui preoccuparsi e per le quali indignarsi.

Ciò che si auspica, ad ogni modo, è che le opinioni siano costruite sulla base di informazioni prese da fonti serie ed accurate (perché no, prendendosi anche un po’ di tempo per leggere e confrontare le varie normative, facilmente reperibili sul web), e non influenzate da strampalate teorie del complotto e vere e proprie fake news diffuse in rete da persone senza scrupoli che lucrano con il clickbating, cavalcando l’onda del malcontento e dell’indignazione che caratterizzano questo delicato periodo storico.


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