Da Palata a Roma lettera d'amore alla madre adottiva: Maria Grazia Calandrone finalista allo Strega

L'intervista dom 21 marzo 2021

Termoli La vita di Maria Grazia Calandrone, dal suo abbandono, al suicidio della madre naturale fino alla sua nuova vita dopo l’adozione: un romanzo, candidato al premio Strega, che parte da Palata e vive tra Roma e Milano.

Attualità di Valentina Cocco
11min
Maria Grazia Calandrone ©Personale
Maria Grazia Calandrone ©Personale

PALATA-ROMA-MILANO. Villa Borghese, 1965. Una bambina, di appena 8 mesi, viene trovata tra i cespugli. Sola e incolume. Accanto a lei un biglietto: «La bambina trovata a Villa Borghese si chiama Maria Grazia Greco. L’ho abbandonata perché il mio amico non aveva possibilità finanziarie e mio marito, cioè suo padre, diceva che non era sua. Trovandomi in condizioni disperate non ho scelto altro che la strada di lasciare mia figlia alla comprensione di tutti e io con il mio amico pagheremo con la vita ciò che abbiamo fatto, o indovinato o sbagliato». Ad abbandonarla è Lucia, madre naturale di Maria Grazia, fuggita da Palata e suicidatasi nel Tevere dopo aver detto addio alla sua unica figlia. La vita di Maria Grazia Greco, ora Calandrone, inizia 8 mesi prima di questo biglietto, ma è da quelle parole che nasce la storia che stiamo per raccontare.

Sono trascorsi cinquantasette anni da quando Lucia, una contadina 29enne di Palata, è costretta a sposare un uomo che non ama per interessi familiari. Siamo in un’epoca in cui le terre valgono molto più della felicità – e della vita – di un figlio. Lucia non è felice e, nel palcoscenico della sua esistenza, incontra Giuseppe di cui si innamora. Con lui fugge al Nord e resta incinta di Maria Grazia. Su Lucia pende un mandato penale, lei che era risultata colpevole di aver abbandonato il tetto coniugale secondo le usanze dell’epoca. Non potendosi autodenunciare e senza possibilità di chiedere aiuto a qualcuno, decidono di suicidarsi. Insieme, fino alla morte, ma non prima di aver messo in salvo Maria Grazia, subito adottata, come raccontano le cronache dell’epoca.

Una storia intensa, strappalacrime e così vera da far male. La vita di Maria Grazia è stata raccontata proprio da lei, la bambina ormai cresciuta, adottata subito dopo il suo abbandono, nelle pagine del libro ‘Splendi come vita’ edito da 'Ponte alle Grazie' nel 2021 e candidato al Premio Strega. La sua è una vita eccezionale, così densa di passioni e sofferenza magistralmente raccontata dall’autrice che diventa voce narrante dei suoi giorni. Ad ogni pagina che giravo, ad ogni parola che leggevo, in me sorgevano domande: la mia fame di sapere, di scavare nella vita di questa donna che non ho mai visto ma che ho disturbato, si impadroniva di me come un mostro famelico che non si sazia mai. Per questo ho deciso di intervistarla e di farmi raccontare tutto.

Partiamo dal titolo del libro ‘Splendi come vita’. Da cosa deriva?

«Alla fine del libro c’è una poesia che si intitola ‘Splendi come Vita’ e descrive quello che succede quando si vede una vita nella sua interezza, con un sentimento di accoglienza e di comprensione che questa vita splende. Il titolo deriva da questa constatazione finale».

Cosa ha provato quando ha scoperto la storia dei suoi genitori naturali?

«Non me lo ricordo, avevo 4 anni. Penso niente, non avevo l'età per capirla una cosa del genere per cui non ho provato nulla. Ha avuto l'effetto di una narrazione astratta».

Quando parla di sua madre e del fatto che, a 4 anni, le abbia comunicato di non essere la sua madre naturale, qualcosa si è rotto nel vostro rapporto. Avrebbe preferito che non le facesse questa confidenza?

«No. Nel senso che, forse, avrebbe preferito lei non farmela. Infatti il suo farmela in realtà è stato un grande gesto d'amore nei miei confronti perché lo ha fatto presa dall'ansia che io lo potessi scoprire da sola e, magari, rimanerne traumatizzata. Cosa che, probabilmente, non sarebbe accaduta. Ma lei, avendo questa preoccupazione, ha deciso invece di rivelarmi questa cosa che in realtà le faceva del male».

Che rapporto aveva con lei (sua madre adottiva)?

«Quello che descrivo nel libro: un rapporto che si ha con qualsiasi madre, credo. Un po' impegnativo, dato che lei aveva qualche momento di défaillance, diciamo così, però un rapporto che credo chiunque ha con la propria madre con l'aggravante che, purtroppo, lei ogni tanto sembrava cadere nel disamore».

L’ha mai perdonata, sua Madre adottiva, per ciò che le ha fatto?

«Penso che tutto questo libro sia una dichiarazione d'amore, per cui non c'era nulla da perdonare. Penso che bisogna perdonare il male fatto apposta. Quello che mia mamma faceva, faceva del male per prima a lei, perché lei soffriva, come appunto scritto nel libro, del tutto inutilmente. Era lei la prima vittima di questa sua interpretazione della realtà».

Nel libro affronta a lungo la malattia di sua Madre, ma mai la sua morte.

«La racconto nella poesia con due versi. Non c’è molto da dire sulla morte, salvo che una persona muore. Quello che volevo dire, l'ho detto. Quello che non volevo dire, viceversa, lo lascio all’intuizione. Diciamo che mi fido molto della sensibilità e dell’intelligenza di chi legge e, soprattutto, cerco di fare in modo che chi legge possa specchiare la propria storia in questo racconto e, quindi, tanti dettagli sono dettagli che possono essere più o meno universali e altri, invece, preferisco che restino privati».

Nel libro parla di suo Padre e di come lei lo ammirasse e fosse legata a quell’uomo che la portava al cinema e le insegnava la voglia di libertà. Che tipo di uomo era?

«Ai miei occhi di allora, e devo dire la verità, anche ai miei occhi di oggi, era un uomo eroico: un uomo che ha costruito la sua vita da solo, che non si è mai vantato di quello che è riuscito a costruire con le sue forze, perché quello che lui ha fatto lo ha fatto per uno slancio ideale e quindi non c'era nulla di cui vantarsi. Capisco questo suo insegnamento ed ha perfettamente ragione nel dire che l'insegnamento principale che mi ha dato mio padre è stato quello della libertà. La libertà personale, che non è certo anarchia o arbitrio ma è combattere per la libertà, perché tutti possano avere il diritto di essere quello che sono».

Un insegnamento bellissimo che io tramanderei ad ogni bambino al mondo…

«Le dico una cosa: la scuola, spesso, non fa altro che deformare i bambini e farli essere come dovrebbero essere anziché, appunto, lasciare che ciascuno sia quello che è nella sua totale differenza da qualunque altra persona. Questo insegnamento, sicuramente, mi deriva dal mio papà ma anche da mia mamma perché lei era un’insegnante molto severa ma straordinaria».

Lei è cresciuta accanto a sua nonna, una donna forte che l’ha presa sotto la sua ala. Sente che l’ha salvata da se stessa?

«Sì, nel senso che c'è stato un momento, quando sono diventata più grande e lavoravo: avevo 18 anni e vivevo ancora a casa di mamma. Come racconto nel libro la presenza di mia nonna è stata sicuramente la presenza della casa che vuole accogliere, che non vuole respingere. Laddove mia mamma tendeva a respingermi, mia nonna lottava addirittura per accogliermi. Quindi, senza dubbio, questo suo amore mi ha salvata, mi ha dato fiducia, mi ha dato sicurezza di essere vista. E questo credo che nella crescita sia fondamentale».

Parliamo di Ornella Muti: quanto ha inciso nella sua vita l’incontro con l’attrice?

«Come incidono le amicizie: ha inciso in maniera positiva, perché lei, come racconto, era proprio il mio posto. Era una persona molto lieve nell'attraversare la vita e quindi mi ha insegnato questa possibilità di essere lievi ed ironici. È stato uno dei primi contatti con questa modalità di affrontare la vita. È una persona a cui ho voluto molto bene. Per me le amicizie sono importanti quindi è stata una persona sicuramente importante per me».

Molto spesso, nel suo racconto, discute della politica quasi a voler contestualizzare e bloccare gli eventi e la sua memoria in un tempo definito.

«Sì, anche. Io sono parecchio politicizzata e così come le canzoni le colonne sonore degli anni e 60 e 70 presenti nel libro, anche i grandi eventi politici sono un modo per ancorare la storia alla grande storia, alla storia collettiva, alla storia sociale. Non sono soltanto uno sfondo, sono delle cose che sono state importanti nella mia esistenza e che sono diventati, appunto, parte della mia esistenza. Come di quella di tutti per cui in questo senso sono una specie di racconto universalizzato».

Quando ha capito che la sua storia aveva bisogno di essere raccontata?

«Come scrivo nella nota, è venuto fuori da solo. Avevo provato più di una volta a raccontarla, ma senza riuscirci perché era difficilissimo trovare il tono per raccontare questa storia. Nel momento in cui è avvenuto, è proprio esplosa da sola e non ho, in effetti fatto quasi interventi, l'ho scritta e infatti le date che ci sono, sono quelle reali della composizione dell'opera e sono 20 giorni insomma».

So che molte persone di Palata l’hanno contattata per parlarle di sua madre. Cosa l’ha colpita maggiormente dei racconti?

«Mi ha colpita il racconto e la descrizione della sofferenza di questa donna che, ovviamente, si poteva intuire data, appunto, la scelta che ha fatto, ma sentire raccontare la sofferenza ma nonostante tutto la grande eleganza di Lucia mi ha colpita. Io non vedo l'ora di poterci andare e vedere quei posti. E poi mi ha colpito molto anche la grande generosità di tutte le persone che si sono offerte di accompagnarmi, di farmi vedere i posti, di parlarmi di lei. È stato molto bello e, devo dire, continua ad essere molto bello».

La sindaca di Palata, invece, l’ha invitata in paese e so che lei vorrebbe avere una biblioteca con il nome di sua madre in segno di riscatto.  

«Sì, mi piacerebbe. La sindaca mi ha invitata ad andare in paese a fare qualcosa per me, però io non c'entro. Quella che ha bisogno di essere riabilitata agli occhi di una comunità che l'ha esposta è mia madre, non sono io».

Cosa resta, oggi, di quella ragazzina che è come un “fiume senza argini” per citarla, alla costante ricerca di libertà, di conoscenza e di diritti negati?

«Io credo di non essere mai cresciuta. Penso di essere e lo dico un po' scherzando e un po' no, credo che questo libro lo abbia scritto la ragazzina, la bambina che sta in copertina. Mio figlio, già quando era piccolo, mi diceva ‘Mamma tu sei infantile’, per cui. Della mia infanzia rimane la curiosità, la sensazione di essere in una scoperta costante. Non potrei fare il mestiere che faccio, ammesso che sia un mestiere, se non ci fosse dentro di me la voce del fanciullino che parla continuamente».

Si sarebbe mai aspettata che questo suo lavoro, nato quasi per caso, sarebbe stato in lizza per il Premio Strega?

«No, mai. Assolutamente no. Non mi sarei aspettata nulla di quello che è accaduto e che sta accadendo».

Cosa prova?

«Un certo disorientamento, devo dirle la verità. Perché io ho delle giornate molto piene e molto ben organizzate per il lavoro di scrittura. Adesso è in uscita un libro su Alda Merini e devo fare una traduzione. Ho delle giornate già piene così, ho due figli, una preadolescente ed un altro adolescente per cui può immaginare. Mi è saltata in aria tutta l'organizzazione routinaria del mio lavoro. Ovviamente sono molto felice, soprattutto del riscontro affettivo. Questa è la cosa che mi colpisce molto perché, parte il successo editoriale, mi colpisce molto che le persone prendono in carico questa storia e la fanno propria e mi raccontano la loro storia. Ieri ero in collegamento con un liceo di Acerra e c'erano i ragazzi che piangevano e mi raccontavano le loro storie. Per me è il massimo che potevo chiedere ad un'opera letteraria».

È riuscita a sbloccare molti e a far trovare il coraggio a tante altre persone che non hanno mai denunciato la propria situazione a farlo…

«Sì, esattamente».

Qual è il suo rimpianto più grande, ammesso che ne abbia uno?

«Guardi, io sono abbastanza lungimirante in questo, nel senso che cerco di fare in tempo reale tutto il possibile in modo da non avere poi rimpianti. E devo dire che, effettivamente, non ne ho nessuno».

Se potesse dire qualcosa a sua madre naturale, cosa le direbbe?

«Ti salvo io. Te lo spiego io che non hai fatto niente di male».

Io penso che, anche postuma, lei comunque l'abbia salvata o, perlomeno, abbia salvato la sua memoria.

«A questo ci tengo e ci tengo che venga riabilitata lei. Perché poi sai tante persone anche a palata mi dicevano che tutte le donne erano dalla sua parte ma era un altro tempo ed avevano paura a dirlo perché erano altri tempi. Da dietro le porte tutti dicevano ‘Brava Lucia, hai avuto coraggio’. Alla fine lei non ha fatto nulla di male. È stata sposata per forza e si è innamorata di un altro. Voglio dire, è una cosa che oggi sarebbe festeggiata addirittura e quindi, questa cosa che venga fatta giustizia di questa memoria di questa povera ragazza che veramente non ha fatto niente di male, io ci tengo molto sinceramente».

Ci è già ampiamente riuscita e spero che anche a Palata ci sia un simbolo, non solo per Lucia ma per tutte le donne che nel corso di quegli anni – e sfortunatamente anche oggi – devono subire tanto.

«Speriamo. Io potrei essere mamma, adesso, di mamma. Lei aveva 29 anni io ne ho 56, quindi l’accoglierei come una figlia e le farei fare ciò che vuole fare».

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