Il caffè, tra Napoli, Trieste, il Molise, l’Etiopia, la Repubblica di Venezia ed Eduardo de Filippo

L'osservatorio ven 18 giugno 2021
Attualità di Claudio de Luca
3min
Il caffè, tra Napoli, Trieste, il Molise, l’Etiopia, la Repubblica di Venezia ed Eduardo de Filippo ©comunicaffè.it
Il caffè, tra Napoli, Trieste, il Molise, l’Etiopia, la Repubblica di Venezia ed Eduardo de Filippo ©comunicaffè.it

MOLISE.  Modugno cantava:”Ma che bellu ccafé, sule a Napule ‘o sanne fa’”. Ma ognuno, a casa sua, ritiene di essere il gran ‘visir’ di questa bevanda. Perfino a Larino, il contitolare di un noto locale usa dire:”Il mio non è un caffè. E’ una crema!”. Imitato da chissà quanti altri - da Campobasso a Venafro e da Agnone a Termoli - la verità è un’altra: Napoli tenta di contrastare Trieste per quanto concerne la bevanda che vorrebbe essere citata tra i beni del patrimonio dell'Unesco. Che sia quello tostato nero o quello tostato marrone, il caffè è giunto a noi da Kaffa, una regione montuosa dell’Etiòpia. Il suo nome deriva da una parola araba (Kahvé).

Arrivò in Europa agli inizi del 1600, grazie ai commerci dei mercanti della Repubblica di Venezia. Nel 1683, dopo la liberazione di Vienna dall'assedio dell'esercito ottomano, gli Austriaci festeggiarono la vittoria di Giovanni Sobieski sui turchi di Kara Mustafà, inaugurando una Casa del caffè all'ombra della Cattedrale di Santo Stefano. A Costantinopoli, però, gli spacci del prezioso seme sono segnalati fin dal 1554, utilizzati soprattutto dai mercanti siriani. Era il 1615 quando un veneziano, un certo Pietro Della Valle, annunciò - per primo - l'apertura di una bottega del caffè in Italia. Un secolo dopo, nel 1720, in piazza San Marco, apriva i battenti il celebre ‘Florian’. Marsiglia lanciò la novità nel 1671; Parigi dovrà attendere (1702) un gentiluomo palermitano, tale Francesco Procopio de' Coltelli, per vedere inaugurato “Le Procope”, con netto anticipo sul Caffè ‘Greco’ di Roma. E c'è voluta tutta la passione di un erudito (Livio Jannattoni) per rintracciare nel “Libro dello Stato dell'Anime della Parrocchia di San Lorenzo in Lucina” l'anno della sua fondazione (il 1760) ed il nome del capostipite, «Nicola Maddalena, caffettiere levantino».

Milano tarderà un po' a fornire personali contributi; ma, quando spunta il periodico «Il Caffè» di Pietro e Alessandro Verri, con l'aria di imitare l'inglese «The Tatler» (Il Chiacchierone) di Richard Steele, è già chiaro il futuro progetto meneghino: proporsi come guida morale di un popolo indolente e retrivo. A rappresentare tutti gli innumerevoli e rinomati santuari meridionali della «bevanda del diavolo» (almeno così lo definiva la Chiesa), è sufficiente citare la caffettiera napoletana immortalata da Eduardo de Filippo nella commedia “Questi fantasmi”. Per preservare l'aroma del caffè, il grande attore e drammaturgo suggeriva un ‘èscamotage’ casalingo che - a suo dire – sarebbe stato infallibile: l’uso del «coppetièllo», che altro non era se non un cono di carta con cui chiudere il beccuccio della caffettiera al momento del filtraggio per non far disperdere il profumo. Praticamente come il ‘proietto’ delle cerbottane! Tuttavia, dovendo scegliere un simbolo partenopeo, non si può non pensare anche a donna Eleonora de Fonseca Pimentel, Direttrice del «Monitore». E’ storia che l'eroina della rivoluzione del 1799 si sia avviata al patibolo, declamando un verso di Virgilio; e, al magistrato che le chiese:«C'è qualche desiderio che potremmo soddisfare?», rispose serafica:«Solo una tazza di caffè».

Per gli entusiasmi suscitati dall’invenzione del «macinino» nell'Ottocento, basta citare i versi di “Er caffettiere filosofo” di Giuseppe Gioacchino Belli:«L'ommini de sto monno so ll'istesso/Che vvaghi de caffè nner mascinino: c'uno prima, uno doppo, e un antro appresso, tutti cuanti, però, vanno a un distìno». La similitudine tra gli uomini ed i chicchi nel ‘mastruccio’ simboleggia perfettamente l'assurdità dell’umanità, meccanica e ripetitiva. Spetta al Caffè ‘Greco’ il privilegio di avere fissato un'immagine di chi vi si riuniva. In una foto di gruppo del 1948, si vede Aldo Palazzeschi, Goffredo Petrassi, Carlo Levi, Pericle Fazzini, Libero De Libero, Sandro Penna, Lea Padovani, Orson Welles, Mario Mafai, Orfeo Tamburi, Renzo Vespignani, Ennio Flaiano e Vitaliano Brancati. Lo storico locale di via Condotti fu immortalato in uno straordinario dipinto di Renato Guttuso; e su quei tavoli Gogol scrisse alcune pagine di “Anime morte”.

Claudio de Luca

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