Francesco, infermiere termolese nella trincea Covid-19 delle Marche

L'emergenza Coronavirus sab 04 aprile 2020
Attualità di Valentina Cocco
5min
Francesco, infermiere termolese nella trincea Covid-19 delle Marche ©TermoliOnLine
Francesco, infermiere termolese nella trincea Covid-19 delle Marche ©TermoliOnLine

TERMOLI. Essere un infermiere è una vocazione: il lavoro è difficile, ci sono giorni pessimi e la pressione è tanta. Nelle tue mani ci sono le vite di persone che, in te, vedono una speranza di guarigione. Diventi un amico ed un consigliere, soprattutto durante la pandemia del Covid-19 che ci ha privati degli affetti, esponendo le nostre paure e lasciandoci soli con esse. I sanitari diventano la nostra famiglia e, si spera, non le ultime persone che vedremo. Malgrado le loro tute enormi, i caschi che non mostrano nulla ed i guanti. Perché sotto quelle tute, quegli occhiali e quelle mascherine siamo tutti umani.

Lo sa bene Francesco Roncone, di origini termolesi, che dal 1994 lavora come infermiere con il 118 di Ancona e che, da un giorno all’altro, si è trovato a combattere un nemico invisibile ma letale: il Sars-Cov-2. Un virus sconosciuto, tutt’oggi non ne comprendiamo le origini, né l’evoluzione e non esiste ancora un vaccino. «La paura c’è sempre – confessa Francesco a TermoliOnLine che è riuscita a parlarci grazie all’amico Stefano Leone – Soprattutto quando torni a casa dopo il servizio. Ci tranquillizza il fatto di avere tutti i dispositivi di sicurezza personale che aiutano ad evitare la diffusione del virus».

Francesco è una tra le prime persone ad incontrare il paziente: svolge il servizio nell’auto medica del 118 che soccorre le persone nelle proprie abitazioni. Si lavora in tre (medico, infermiere ed autista). A stretto contatto gli uni con gli altri: nell’auto, in casa dei pazienti e nelle corsie di ospedale. E insieme si smonta il servizio, dopo giornate che sembrano interminabili. «Arriviamo insieme a casa del paziente e lo visitiamo nel suo ambiente, impiegando il minor tempo possibile e con un’attrezzatura ridotta che consiste, principalmente, nel termometro a distanza. Ogni volta è un’incognita perché non sappiamo se ci troveremo davanti ad un caso di covid-19 o, semplicemente, ad un malanno minore». Spesso si tratta di persone sole in case «che hanno mandato via la famiglia al manifestarsi dei primi sintomi» o di anziani «che non hanno nessuno che possa prendersi cura di loro».

Il capoluogo marchigiano, come buona parte di altri centri, accoglie pazienti di altre città che sono ormai allo stremo delle forze e dei posti per il ricovero: «Abbiamo moltissimi ricoverati da Pesaro, dove si è registrato il focolaio maggiore - confida Francesco -Siamo passati da una routine di ricoveri ad una pandemia. Le persone, oggi, hanno paura di essere ricoverate. Temono che possano infettarsi, una volta arrivati in ospedale e sono restii a lasciare le mura domestiche dove si sentono al sicuro. Altre si arrabbiano e ci minacciano perché vogliono che qualcuno vada a casa loro per visitarle».

La macchina sanitaria si è messa in moto a fine febbraio, quando si sono registrati i primi casi di Covid-19 e, benché sia passato più di un mese, il virus è ancora sconosciuto. In più, inizialmente, i sintomi coincidevano con i più classici malanni di stagione, creando confusione ed ansia: «La temperatura che supera i 37,5 gradi, la febbre che persiste da giorni e la resistenza agli antibiotici sono alcuni dei campanelli d’allarme del Covid-19. Quando questi sintomi si presentano in un paziente, si procede al trasporto nelle tende del pre-triage allestite dinanzi all’ospedale. Qui viene visitato nuovamente, viene sottoposto al tampone e ne viene deciso il percorso in base alla condizione medica: malattie infettive o terapia intensiva. Per avere la certezza del contagio è necessario il tampone. Un paio di volte abbiamo prelevato qualcuno che presentava i sintomi del Covid-19 per poi scoprire, fortunatamente, che non era positivo».

Come se il lavoro di infermiere non fosse già abbastanza stressante, a complicare la situazione, oltre alla pandemia, ci sono i dispositivi di sicurezza personale: tuta, doppia mascherina, guanti, occhiali. Oggetti necessari per evitare contagi ma che lasciano poco libertà di movimento e di respiro a chi li indossa: «La tuta è di livello 3, a tenuta stagna e che non traspira. È adatta a lavori che si svolgono in poco tempo e lascia poco spazio alla respirazione che diventa faticosa. Indossiamo anche la doppia mascherina: una chirurgica a contatto con bocca e naso e, sopra, una Ffp3 che va cambiata alla fine di ogni turno, visto che ha una durata di 6 ore continuative e non può essere lavata».

Protezioni che i comuni cittadini non hanno la fortuna di avere, soprattutto per ciò che riguarda le mascherine, pressoché introvabili o non a norma: «Purtroppo le mascherine non si trovano. Per contrastare il virus, però, è fondamentale rispettare le distanze di sicurezza, lavarsi spesso le mani e disinfettare le superfici. È altresì importante evitare contatti fisici. Sembrano azioni semplici, ma potrebbero salvarci la vita e difendere i nostri cari. Anche io sarei voluto tornare a Termoli, da mia madre, ma non l’ho fatto e non lo farò per non metterla a rischio. Ci vediamo grazie alle videochiamate. Abbiamo tantissima tecnologia a disposizione che ci aiuta a ridurre le distanze. Usiamola ed amiamoci di più».

La fine del tunnel è lontana, come affermato anche dal Governo, ma una flebile luce inizia a vedersi. O almeno nelle regioni del Nord Italia, le prime ad essere attaccate e dove il virus ha manifestato la sua natura con maggiore violenza. Al Sud, invece, ci stiamo avvicinando al picco, come ribadito dal Governatore della Regione Molise Donato Toma ieri sera. Su questo è d’accordo anche Francesco: «Al Sud il picco è vicino, dobbiamo aspettarci nuovi contagi. Mai come in questa fase è necessario evitare contatti. Restate a casa quanto più possibile, anche se la noia e lo stress vi deprimono. Ne va della vostra vita. A chi sottovaluta ancora il virus, paragonandolo ad un’influenza stagionale un po’ più forte del normale, consiglio di studiare le statistiche e di stare attento, perché non ha visto con quanta violenza, questo virus, ti attacca».

Francesco, come tutti noi, spera di tornare presto alla normalità e crede che arriverà: «La speranza di tornare alla normalità c’è. Certo non avverrà il 13 aprile, né il 20, ma accadrà. La cosa che mi manca di più? Un caffè al bar, in compagnia. Ormai bevo solo quelle delle macchinette».

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