​Sapore di virus, i consumi dopo la pandemìa: pane fatto in casa e ‘comitatìte’

L'osservatorio mar 30 giugno 2020
Attualità di Claudio de Luca
3min
​Sapore di virus, i consumi dopo la pandemìa: pane fatto in casa e ‘comitatìte’ ©Misya
​Sapore di virus, i consumi dopo la pandemìa: pane fatto in casa e ‘comitatìte’ ©Misya

MOLISE. Durante la pandemia, gli esercizi commerciali hanno venduto quintali di lievito in più. Ora il fenomeno si è attenuato, ma non risulta ancora domato. Chi s’intende un minimo di economia non può non ritenersi preoccupato; e la mente gli corre subito ai tempi della seconda guerra mondiale quando, davanti agli esercizi che producevano pane, si formavano le file.

Quello non era di certo un segnale di salute per il Paese. L’assembramento, sia pure di singoli, ordinati per metro lineare, si è riformato di recente, lasciando intendere: 1) che è aumentato il consumo di generi a lunga conservazione; 2) che è diminuito quello dei prodotti più costosi; 3) che ne è riuscito accresciuto il consumo del lievito e quello della farina. In sostanza, la gente si confeziona il pane in casa mentre, negli esercizi commerciali, magari venderanno più pezzi (dal punto di vista teorico) ma perderanno valore aggiunto (dal punto di vista macroeconomico). E si tenga conto che la gente ha cominciato col farsi il pane da sola, in casa, solo non aveva alcunché da fare e c’era il ‘lockdown’. La cosa divertiva persino e tutti avevano più tempo visto che sarebbe stato pericoloso uscire per le strade. Ma può, in una società moderna, avere un senso logico usare il tempo che ti avanza solo per togliere guadagni al fornaio?

Allo stesso modo non comprare l’amuchìna, per prodursela da solo, oppure far scomparire l’alcol dagli scaffali dei negozi per paura dell’esaurimento delle scorte? Tutto ciò può solo far capire che l’intero Paese ha preso spavento per l’incedere del coronavirus, che è ancora spaventato e che addirittura teme di restare senza soldi; e ragiona così seppure quest’ultimo sembrerebbe essere il parto di una mente che ha smarrito l’equilibrio d’uso. In effetti, come si potrebbe pensare che questa piccolissima quota di valore aggiunto possa salvare le nostre tasche, a scapito degli introiti dei panificatori?

Altro segnale, non so quanto positivo di questo periodo, si è rivelata essere la cosiddetta “comitatite”, pur essa effetto dell’epidemia. Questo novissimo fenomeno, lungi dal risolverli, ha complicato i problemi proprio quando sarebbe stato opportuno semplificare, anzi che complicare. Da tutte le richieste sopravvenute dal tavolo degli esperti che vi sedevano intorno, si è fatto in modo (sia pure non volendolo) che la gente, sentitasi colpita dalla crisi, tagliasse lo scontrino del bar e si facesse il cappuccio casalingo. E questo perché, quando si inizia a stringere la cinghia, poi si finisce col farlo su tutto. D’altronde cosa ci si può aspettare da un Paese di cassintegrati, divenuti tali da un giorno all’altro in grazia delle attività chiuse? E’ fatale che un Paese senza consumi sia un Paese condannato alla morte. I ristoranti sono rimasti chiusi per mesi. Prima ti ci recavi, magari solo per una domenica, con la tua Famiglia. Era quella l’occasione per scoprire un buon vino. Una volta che t’era piaciuto l’abbocco, passavi al supermercato e te ne ricompravi qualche bottiglia. Ma, se le serrande dei ristoratori rimangono abbassate, èfatale che intere filiere abbiano a crollare.

Vi sarà chi, con tanta faciloneria, dirà che, se i lavoratori finiscono in cassa integrazione, li pagherà lo Stato ed il datore di lavoro non li licenzierà. Troppo bello! A me lavoratori del genere suggeriscono l’idea di essere tanti pazienti narcotizzati, trattati oramai in terapia intensiva. Non rischiano la vita, ma neppure guariscono. Un po’ come se i posti di lavoro scompaiano, ma tu non li vedi. Il fatto è che, quando si sia esaurita la narcòsi della cassa, il lavoro muore.

Si dice ancora: nei supermercati, chi non ha danaro è stato dotato dei famosi buoni-sconto. Ma, forse, non bisognava usare la catena dei ‘ticket-restaurant’ perché i costi sono alti (anche il 20%). Meglio sarebbe stato consegnare tessere pre-pagate, magari emesse da Poste italiane (che è un ente ‘super partes). Purtroppo il ‘quivis de populo’ conta una bene amata mazza mentre il Comitato (detto della ‘task-force’) è fatto di esperti. Ma forse sono tali in grandi cose, mentre possono essere ben lontani da quelle piccole. E, se vogliamo proprio dirla, checché possa pensarne il Presidente Conte, un Paese in cui operino più comitati che decisori è un Paese che non può funzionare bene.

Claudio de Luca

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