Urbanistica molisana, oramai è troppo tardi?

L'osservatorio mer 05 agosto 2020
Attualità di Claudio de Luca
3min
Urbanistica ©Esame architetti
Urbanistica ©Esame architetti

LARINO. Una delle frasi che si sentono pronunciare da anni, dal colto e dall’ìnclita, è la seguente: ma com’è che Larino, ampliata sin dagli Anni Sessanta, si è allargata malamente? Il fatto è che, in passato le trasformazioni urbane del centro frentano (e quelle molisane in genere), soprattutto quelle concepite nei centri minori della ventesima regione, avrebbero necessitato di un rapporto più stretto fra tre soggetti: proprietari dei fondi, progettisti e Comuni (intendendo, per questi ultimi, i politici e non solo).

Questo sempre che si fosse inteso di tutelare i diritti dei cittadini al verde ed ai servizi comuni. Ma così non è stato, ed oggi se ne vedono i risultati un po’ dovunque. Nella sostanza le quantità edificatorie consentite dai politicanti dei vari Palazzi sono state contrattate, consensualmente, in base ad accordi con le proprietà fondiarie, peraltro determinate non su preventivi criteri di congruità urbanistica quanto piuttosto sulle aspettative di rendita dei vari proprietari che – logicamente - serbavano soltanto visioni di parte.

Ed ecco perché il criterio di valutazione dell’utilità pubblica non è stato mai tenuto in conto alcuno e la necessità dell’ottenimento di risorse adeguate (quanto a dotazione di spazi pubblici) si è rivelata perdente. Tant’è vero che ben poco delle dotazioni di verde e di servizi è stato effettivamente realizzato. Eppure, a suo tempo, il legislatore nazionale si era mosso bene individuando quelle quantità minime di spazi pubblici per abitanti/utente (nella sostanza gli ‘standard’ urbanistici) che dovrebbero essere garantite per legge in modo indisponibile dalla cedevole volontà comunale e dalle fantasiose soluzioni dei progettisti (ispirate dalle aspettative economiche dei proprietari). Purtroppo questo elemento necessario, seppure insufficiente a garantire l’interesse pubblico collettivo, raramente ha trovato posto nelle soluzioni poi realizzate, ivi compreso l’obbligo di approvare Piani di regolazione generale prima di qualunque possibilità di intervento da parte dei privati, abilitati a muoversi solo sulla scorta di localizzazioni, di quantità edificatorie e di spazi pubblici prefissati.

Eppure certe regole erano state già confermate dalla Legge urbanistica del 1942 con cui il legislatore dell’epoca mirava ad impedire che l’assetto urbanistico fosse determinato prevalentemente dalla struttura della proprietà fondiaria che – pure legittimata alla propria valorizzazione economica – non poteva avere la necessaria visione d’insieme possibile soltanto col disegno di un assetto urbano complessivo. Per di più, con l’affidamento degli incarichi dei progetti dei Piani regolatori e particolareggiati, approvati dai Comuni prima di ogni intervento edificatorio, si sarebbe offerta un’ampia occasione di sviluppo economico e di affermazione del ruolo culturale e sociale dei progettisti urbani. Caduto il Fascismo, la Repubblica dové preoccuparsi di ricostruire le città bombardate; ma poté applicarsi a tanto solo apprestando strumenti di emergenza.

E, per diffondere l’attività edilizia, i Comuni affrontarono l’emergenza ricorrendo abitualmente alla prassi delle ‘convenzioni’ che altro non erano se non accordi di natura privatistica contrattati con chi voleva edificare anche in carenza di un razionale progetto pubblico complessivo delle comunità E così gli enti locali stipulavano contratti con cui – a fronte dell’impegno a rilasciare licenze per volumetrie concordate – s’impegnavano a realizzare strade di accesso all’area, tragitti di distribuzione interna, marciapiedi ed illuminazione stradale. Ed ecco perché oggi si vedono interi quartieri con case troppo alte attorno a strade troppo strette.

Fu allora che i Comuni si indussero a non fidarsi della deontologia dei vari professionisti dell’urbanistica (ma a quella di sé stessi non pensarono!), prevedendo quelle prescrizioni inderogabili fissate con gli ‘standard’ del 1968 (distanza minima di 5 metri dai confini di proprietà, distanza tra gli edifici pari a quella di altezza maggiore con un minimo assoluto di 10 m tra pareti finestrate, la realizzazione di almeno 18 mq di verde e 9 di scuole e parcheggi ed altri 15 su abitante di parchi territoriali). Ciò nonostante basta guardare il caso di Larino, un tempo Città del verde, diventata oggi Comunità priva di verde.

Claudio de Luca

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