Presenze in servizio: il Giudice si pronuncia sulla proporzionalità del licenziamento

L'osservatorio gio 24 settembre 2020
Attualità di Claudio de Luca
4min
Smart-working ©Elysium Post
Smart-working ©Elysium Post

ROMA. Presenze in servizio: il Giudice si pronuncia sulla proporzionalità del licenziamento, verificando la «giusta sanzione».

Un ente, per ottemperare all’obbligo di gestire, in maniera corretta, le presenze dei lavoratori, deve dotarsi di un software specifico per questo compito, che non possa essere modificato o “manomesso” dall’esterno, e che possa essere utilizzato pure nel caso che vi siano dipendenti in ‘smart-working’, visto quanto questa modalità ha preso piede a causa dell’emergenza Covid-19. In tutto ciò, bisogna comunque prestare attenzione alla ‘privacy’ del lavoratore, che deve rimanere una garanzia, rispettando le leggi già promulgate in merito. In Molise, la situazione in materia di rilevazione- presenze è variegata.

Solo una percentuale di Comuni si è dotata di ‘software’ appositi, mentre una fetta più consistente utilizza il ‘badge’ elettronico come strumento di registrazione in presenza degli orari di entrata ed uscita. Addirittura alcune imprese sono rimaste al cartellino cartaceo: si stima che circa il 39% delle aziende italiane non utilizzi ancora strumenti digitali per la rilevazione delle presenze, cifra che cresce fino al 69% se rapportata ai collaboratori esterni e ‘freelance’. E’ dedicato al licenziamento disciplinare l'art. 55-quater del decreto legislativo n. 165 del 2001, volto a sanzionare - tra l'altro - la “falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente”, da parte del pubblico dipendente. In questo, come in altri casi, la norma rende applicabile, “comunque, la sanzione disciplinare del licenziamento”.

L'articolo è stato introdotto in un decreto legislativo nel 2009, a seguito di alcuni gravi episodi di assenteismo verificatisi in pubbliche amministrazioni, con il chiaro intento di combattere il fenomeno, accentuandone il rilievo e, soprattutto, le conseguenze sul piano disciplinare. L'avverbio ‘comunque’, in effetti, pare individuare nel licenziamento l'unica, inderogabile ed automatica sanzione in presenza della fattispecie indicata. La disposizione ha subito modifiche tra il 2016 e il 2018, mentre sono del gennaio e del giugno del 2020 due sentenze della Corte Costituzionale: l'una (la n. 61) ha caducato il 2°, 3° e 4° periodo del comma 3-quater, relativi all'azione e soprattutto alla sanzione nei confronti del pubblico dipendente quando il suo comportamento abbia determinato un ‘danno all'immagine’ per la Pubblica amministrazione; ciò non significa, peraltro, che quell'azione, ove ne ricorrano i presupposti, possa essere esperita. L'altra (la n. 123) si è occupata di quel presunto ‘automatismo sanzionatorio’, dichiarando, peraltro, inammissibili le questioni sollevate. In quest'ultima, tuttavia, le argomentazioni addotte, ancorché non vincolino i Giudici di merito, non sono di poco conto, perché suggellano (con l'autorità della Corte) una lettura della norma già proposta in dottrina e condivisa dalla Cassazione.

Secondo questa interpretazione, l'avverbio ‘comunque’ non può “di per sé definire un automatismo espulsivo, contrario alla giurisprudenza costituzionale sulla proporzionalità sanzionatoria”. Lo impedisce la circostanza che “l'art. 55 del menzionato decreto legislativo n. 165 del 2001 continui a richiamare, nel comma 2, la necessaria applicazione dell'art. 2106 del Codice civile; e quindi il canone generale di proporzionalità delle sanzioni disciplinari rispetto alla ‘gravità dell'infrazione’. Pertanto, resta fermo che “alle amministrazioni datoriali spetti il potere di recesso nelle fattispecie disciplinari tipizzate dal legislatore” e che “questo potere spetta all'amministrazione ‘comunque’, anche laddove non sia previsto o sia limitato dalla contrattazione collettiva”. Tuttavia, il Giudice dell'impugnazione può sindacare la concreta proporzionalità del licenziamento, verificandone la qualità di ‘giusta sanzione’ alla luce dell'art. 2106 del Codice civile. In caso di controversia giudiziale, peraltro, l'effetto della tipizzazione legale delle fattispecie di licenziamento disciplinare è l'inversione dell'ònere della prova, essendo del dipendente, “autore materiale del fatto tipico, l'onere di provare la sussistenza di elementi fattuali di carattere attenuante o esimente, idonei a superare la presunzione legale di gravità dell'illecito (sentenze 11 luglio 2019, n. 18699; 11 settembre 2018, n. 22075; 19 settembre 2016, n. 18326 e 24 agosto 2016, n. 17304)”. Non c'è dubbio che ne esca così depotenziata la ‘carica sanzionatoria’ della norma, almeno per quale doveva essere nella volontà del legislatore del 2009.

Ad oggi, alla Pubblica amministrazione non basterà accertare l'infrazione disciplinare per procedere al licenziamento, ma occorrerà motivare adeguatamente quanto alla proporzionalità tra la prima e la seconda sanzione. Ad esempio, timbrare il cartellino e non andare a lavorare è cosa diversa dal lavorare quattro ore al giorno, ma farne risultare cinque. L'inversione dell'onere della prova, poi, non toglie né il rischio di un èsito favorevole al lavoratore né la produzione di un costo per l'amministrazione che un corretto esercizio del potere disciplinare avrebbe potuto evitare. Il che apre delicate questioni in ordine alla responsabilità dell'organo competente ad esercitarlo.

Peraltro, considerate complessivamente, le due sentenze richiamate insegnano qualcosa che va oltre la contingenza normativa. Innanzitutto, dicono che il diritto è un sistema, una trama di relazioni, pur con tutti i suoi limiti, perciò le norme non sono mònadi, ma ricevono senso e portata inserendosi (o calandosi) dentro quella trama. Inoltre, che da essa neppure la volontà del legislatore può del tutto prescindere, se non vuole diventare arbitrio. E ancora, rivela il respiro corto di una reazione ‘a caldo’, tesa a colpire il fenomeno senza una reale comprensione delle sue cause e in carenza di una prospettiva per rimuoverle. Fermo l'inadempimento e il disvalore sociale, l'assenteismo non rivela forse una carenza organizzativa della Pubblica amministrazione, un deficit nella gestione delle risorse umane, un problema di persone e della loro responsabilità? Chi deve rispondervi se non il dirigente o il funzionario del Servizio che spesso ritiene di essere esentato dal ‘timbrare’?

Claudio de Luca

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