«Curiosità, tradizioni e liturgia tra il giovedì e il venerdì Santo»

verso la Pasqua gio 28 marzo 2024
Cultura e Società di La Redazione
2min
Pasqua ©Web
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GUARDIALFIERA. «C’è un giorno dell’anno in cui, per una volta, il centro della liturgia della Chiesa e il suo momento culminante non è l’Eucaristia, ma la Croce; non il Sacramento, ma l’evento; non è il segno ma il significato. È il Venerdì Santo! Son le ultimé ore terrene di Cristo. Le campane non suonano, non si celebra la Messa, ma si contempla e si “adora” il Crocefisso. Il tabernacolo è vuoto, l’altare nudo senza tovaglie, senza candelieri; segni di desolazione. Viene suscitata oggi l’esperienza della visibilità. E si dialoga sul comportamento di Gesù, contrapposto a quello praticato dagli uomini grandi della storia che innalzarono e che innalzano le loro potenze sui flagelli innaturali e sui cadaveri dei fratelli massacrati dall’orrore.

Riflettiamo in questi giorni sulla figura di Cristo che va incontro alla morte con libertà di uomo. Assistiamo al rito di Colui che, al Giovedì Santo, lava i piedi dei suoi prescelti. E non impone la replica, ma li sospinge ad esercitare, in ogni tempo, gentilezze vicendevoli; attenzioni non standardizzate, e prodigare <manforte> con la fantasia di chi ama: uno specimen, insomma, per non perderci in chiacchiere, per liberarci dalla latitanza, dalla falsità, dalle mollezze, dal fanatismo, dal malaffare, dall’orgoglio, dall’autosufficienza.

Nell’era paleozoica preconciliare, a sera avanzata del Giovedì Santo, più che adorare Cristo vivo e vero presente nell’altare della riposizione – scorrettamente definito “Sepolcro” – venivano intonati canti penitenziali piuttosto che inni eucaristici. Un monaco quaresimalista scalava il pulpito a scandire con accenti strappa cuori, le “Sette Parole” del Cristo agonizzante, con frasi brevissime che, per densità e gittata, suscitavano interrogativi e turbamenti: "Un’anima sola si ha, se si perde che sarà?”. Sulla predella dell’altare – fra due fiaccole – viene elevata e delucidata la Croce con tutti i segni della passione. Poi, a sorpresa, l’atto di ostensione dell’<Ecce Homo> sbeffeggiato, con lo scettro di canna fra le mani legate, e la corona di spine.

Circa 70 anni fa ero sul Vallore Grande, frontiera fra le comunità di San Giuliano e Colletorto per assistere e per raccontare ai lettori de “Il Popolo” qualcosa di meravigliosamente espressivo. Ero in attesa lì, sul ponticello a udire lo sciacquio flebile delle Cascatelle in territorio di San Giuliano. Contemplo gli olivi secolari, come quelli del Getzemani: contorti, genuflessi, argentati dal fascino del plenilunio del Giovedì Santo. E, in questo scenario evangelico molisano, penso al Monte degli Olivi da cui ebbe inizio l’entrata trionfale di Cristo a Gerusalemme, agli Olivi del Cedron dove si consumò il tradimento di Giuda. Quanti olivi e quanto grondar di olio in questo giorno: considero gli Oli Santi della Messa Crismale e a quelle aromatici di Nicodemo usati per la sepoltura del venerdì. Tanti olivi, tanti oli.

La valle intanto si riempie di mistero; s’affolla di penitenti scesi da Colletorto e da San Giuliano. Fra i due paesi ci sarà a momenti “lo scambio delle Croci”. Come dire “io pongo sulle tue spalle il carico della mia croce e abbraccio la tua sofferenza". Ti do il mio silenzio e prendo la tua solitudine. Una contropartita senza inganni: "Rinnego me stesso e stringo fra le mani con te: servizio, ospitalità, pazienza”.

È la follia della Croce, il soprassalto del bene di un Giovedì Santo che dopo 69 anni, lascia una cicatrice d’eterno nell’anima». Vincenzo Di Sabato.

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