​Al mercato: frutta dipinta da Chardin, fatta per i soggetti di Botero

Natura morta ven 15 marzo 2019
Cultura e Società di Claudio de Luca
2min
Frutta dipinta da Chardin ©Termolionline.it
Frutta dipinta da Chardin ©Termolionline.it

BOLOGNA. Peccato per il ‘ventaccio’! Invece, quando Zefiro è tranquillo, è bello aggirarsi per i mercatini, con la mente sgombra, perduta nell’ozio, in mezzo a tante nature morte, perennemente coperte da un telo leggero (in basso) e protette da un ombrellone malconcio (in alto), posto dall’omino (o dalla sua Signora) per riparare i prodotti dell’orto dai raggi del sole del mercatino. Su quei banchi, accostati l’uno all’altro, è possibile notare: qui una ventina di porri bianchi e verdi, con le loro piccole radici a testa di Medusa; là otto teste d’aglio insertate, messe in mostra quasi fossero orologi di pregio; più accosto, tre o quattro chilogrammi di introvabili mele annurche, una zucca gialla, due mazzi di prezzemolo, dieci peperoni, un mucchietto di patate, dodici carote, cinque melanzane, dieci cespi di lattuga e tre cipolle. Tutta roba degna del pennello di Chardin, fatta per essere mangiata dagli omoni e dalle donnone di Botero.

Su ciascun ripiano, sopravvive la scarsa produzione di un contadino, o meglio del diretto coltivatore d’un orto. Il miracolo di quelle nascite si verifica in uno di quei piccoli pezzi di terreno, posti dietro le case di periferia, prossime alla campagna, che – un riquadro dietro l’altro – son solite apparire al viaggiatore dal finestrino di un bus che abbia preso a rallentare approssimandosi ad una fermata obbligatoria.

Al mercato, dietro a ciascuna di quelle misere cornucopie c’è sempre un uomo (o una donna) che non hanno l’aria né dell’ortolano né della verduraia ma che si atteggiano, come Tiffany, a fortunati collezionisti di preziosi vegetali, degni di comparire nella vetrina di un orefice, messi lì non per essere offerti ai consumatori quanto piuttosto per la delizia degli occhi o per essere resi nella disponibilità di pittori di nature morte oppure di imbalsamatori capaci di conservare le loro forme ed i colori al solo fine di adornare tavole degne di porre in mostra quei trofei di Cérere. Cibarsi di quelle primizie, schierate in bell’ordine sui banchi, non pare cosa possibile, tanto esse sembrano astratte, assorte nella luce mattinale dei nostri Paesi, cullate dagli occhi compiaciuti dei loro “creatori”.

Molti di quei banchi altro non sono che dei carrettini spinti a mano (come ai vecchi tempi), sul cui piano è stata posta, in bell’ordine, tanta natura morta. I proprietari di quei rari esemplari non fanno che guardarli, senza mai sollecitare all’acquisto i passanti che pure mostrano di apprezzare i prodotti con più di uno sguardo curioso ed interessato. Sembrano non tanto bancarellisti dell’ortofrutta quanto, invece, espositori di rarità, lieti di “esibire” più che di vendere.

Oggi, sui mercatini rionali del nostro Molise, di produttori agricoli (veri!) se ne vedono ben pochi, seppure in un’altra èra si dicesse che questo era il territorio di una regione “ruralissima”. Presentemente, i superstiti della categoria sono rappresentati da giovani extracomunitarie che, apparentatesi a gente del posto, ne hanno preso a coltivare l’orto, ma non per ricavarne frutta, bella solo da guardare, quanto per conseguirne un reddito in moneta sonante. Insomma, “meglio la vita rùvida e concreta del buon mercante, inteso alla moneta” (Guido Gozzano) che i conàti artistici di altri tempi. Cosicché quelle belle primizie, degne di essere riprodotte in un quadro d’autore, ora colpiscono meno l’occhio ma molto di più decrementano i vari settori del portafogli. E, cosa più grave, accanto ai quantitativi di propria produzione, vengono esposti sul banco per la vendita pure prodotti visibilmente acquistati nei mercati generali di Pescara o di Fondi fatti passare per prodotti degli orti locali.

Claudio de Luca

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