Inammissibilità del ricorso all’avviso di infrazione

lun 08 novembre 2021
Veicoli al crocevia di Claudio de Luca
3min

Un Comune viene citato in giudizio dinanzi al Giudice di pace. L’avviso d’infrazione, reperito dietro il tergicristalli, era nullo perché la segnaletica installata non era conforme alle regole del Cds. Il ‘foglietto’ avrebbe concretato una situazione di insidia, ponendo l’automobilista “nell’impossibilità di discernere tempestivamente il segnale o cartello valido e di regolare conformemente la propria condotta di guida“. L’avviso, dunque, sarebbe nullo perché la segnaletica, determinando l’errore dell’automobilista, avrebbe concretato nella condotta del trasgressore l’esimente dell’errore sul fatto. Il Comune si costituisce in giudizio, difendendosi ‘in limine litis’, considerato che controparte aveva impugnato un preavviso di violazione.

L’avviso apposto sul parabrezza non costituisce processo verbale; al massimo è una forma di comunicazione con cui si avverte l’utente della strada che un proprio agente ha rilevato un’infrazione. In conseguenza di ciò, è stato avviato quel procedimento di accertamento che condurrà, successivamente, all’emanazione del vero e proprio sommario processo verbale. Perciò, ponendo sullo stesso piano un mero preavviso di accertamento, il denunciante non ha considerato che, per giurisprudenza costante, in nessun caso può esperirsi ricorso contro un preavviso. La stessa Corte costituzionale (Ordinanza n. 160/2002) ha ritenuto inammissibile l’impugnazione di un avviso, rivelandosi detto atto non “immediatamente lesivo di posizioni del soggetto non ancora avvisato della commessa violazione“ né tale da “costituire titolo esecutivo, o comunque di irrogazione di sanzione, neppure cautelare“. Cosicché le tesi del ricorrente non sono accoglibili, non potendosi produrre ricorso avverso un procedimento che, in alcun modo, concreta una esecuzione coattiva. Per ciò stesso, il Comune potrebbe agevolmente concludere chiedendo al Giudice di pace adìto di volere ravvisare l’inammissibilità del ricorso, condannando la parte alla refusione, in favore dell’Ente convenuto, delle spese sostenute a causa del giudizio, quantificandole sulla scorta del tempo impiegato dal dirigente (o funzionario) delegato a comparire in udienza.

Le leggi di depenalizzazione precedenti la “689” nulla disponevano in ordine alla sorte delle spese di giudizio; perciò, riconosciuta la natura civile del processo, veniva operato ricorso alle regole poste dagli artt. 91 e segg. Cpc. Nel 1981, le modifica al sistema penale dedicarono all’argomento il c. 11 dell’art. 23, senza prevedere alcunché nel caso di accoglimento della domanda. Perciò si potrebbe affermare che la disciplina delle spese deve essere regolata come in penale; e che, con la sentenza di condanna, l’opponente deve conferire le spese processuali (art. 488 Cpc), mentre con l’accoglimento del ricorso non corrisponderebbe le spese del processo, e permarrebbero a suo carico quelle di difesa. Ma il legislatore non sembra andare in tale direzione. Non può ignorarsi, infatti, che la sanzione penale interessa l’ordinamento generale mentre quella amministrativa concerne l’ordinamento della P.a. che – nell’irrogarla – esercita quella particolare potestà da cui nasce il diritto a conseguire la somma. Il procedimento mira appunto a garantire il corretto esercizio di detta potestà; e quindi, rispetto al Giudice, P.a. e privato si pongono come parti, con il risultato che ciascuna potrà essere origine di spese per l’altra.

Quindi, l’Ente convenuto potrà fare riferimento ancora alle regole della procedura civile, con una particolarità che si rinviene proprio nel c. 11 dell’art. 23 della “689”: nel caso l’uno o l’altro abbia a soccombere, il legislatore ha escluso il potere del giudice di compensare le spese tra le parti. Il divieto può spiegarsi con il fatto che, in pratica, viene riconosciuta conforme a legge l’ordinanza-ingiunzione per un fatto illecito, nell’esercizio legittimo della potestà punitiva della P.a.; per ciò stesso, per le spese di difesa vale il criterio della soccombenza (con applicabilità dell’art. 92, c. 1, Cpc, in punto di superfluità). Insomma, se l’opponente perde, paga le spese “vive” del processo e quelle causate per l’opposizione alla P.a.; ma se vince, sarà quest’ultima a dovere pagare anche quelle di difesa.

Claudio de Luca

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